
Ricerca sociale e di mercato: oggi che studiamo con attenzione maniacale i contenuti da pubblicare, i social network rimangono un’attendibile fonte di informazione?
All’inizio fu il turismo
È partito tutto da un recente articolo apparso su Officina Turistica, scritto da Antonio Pezzano “Non parlate di overtourism. Alla folla piace la folla”.
Ho passato l’estate cercando di evitarla, non ci sono riuscita e ho pensato che forse Pezzano ha ragione: in una spiaggia discretamente affollata ho visto attorno a me persone per nulla infastidite, tendenzialmente rilassate, a tratti divertite. Stessa percezione che ho avuto in altre località turistiche decisamente popolari.
Eppure, nei feed dei miei social, vedo tanti che scelgono mete semi deserte, poco note, meno accessibili. A grandi linee, posso distinguere due tipi di post: quelli del “ci sono ANCHE io!” e quelli del “ci sono SOLO io!”. Da un lato c’è la volontà di mostrare di appartenere ad un gruppo, dall’altra il desiderio di mostrarsi pionieri, fuori dalla massa, “diversi” (che poi, vuole dire appartenere ad un altro gruppo e non essere degli eremiti).
In entrambi i casi sono condivisioni che mirano a costruire la nostra immagine e più precisamente la rappresentazione che gli altri hanno di noi: gran parte di quello che scegliamo di raccontare ha questo scopo, che si parli di viaggi o meno.
E così, per corredare l’articolo di Officina Turistica, possiamo dire che ad alcune persone (probabilmente molte, la maggioranza) piace frequentare posti noti, popolari, affollati anche (forse soprattutto) per poter dire (e mostrare) il sempreverde “io ci sono stato” (a tal proposito qui il Post affronta la questione delle foto ai musei) Altri, invece, preferiscono mete meno famose ma – allo stesso modo – non disdegnano condividere di aver scoperto “un gioiello conosciuto solo dai locali”.
Poi fu il teatro
A quel punto mi è tornato alla mente Goffman e “La vita quotidiana come rappresentazione”.
I social sono sempre stati un palcoscenico dove mostrare la parte migliore di noi e rendersene conto ora sarebbe un po’ tardivo. Tuttavia, sembra che ultimamente la questione sia diventata molto più seria:
– usare i social richiede sempre più competenze e dispendio di tempo ed energie: sono sempre più rare (per dire introvabili) le foto non perfette, non filtrate, non frutto di selezione tra altre decine
– i testi sono sempre più curati, sia che si voglia catturare l’attenzione con una battuta tagliente, sia che si voglia suscitare empatia con la condivisione di un avvenimento più o meno privato
– i contenuti informativi, ovvero che hanno lo scopo di far conoscere qualcosa di nuovo ai propri follower sono la minoranza (a meno che non si sia nell’ambito della vendita)
Pare insomma di essere non solo sempre “in onda”, ma di essere diventati degli ottimi attori (aspetto che ha anche delle ricadute psicologiche non trascurabili)
E allora cosa ce ne facciamo dei dati in rete?
Cosa rimane di vero in mezzo a tanto contenuto? La rappresentazione è finzione?
Possiamo ancora ritenere attenidibili meotodologie di ricerca come la sentiment analysis e la stessa content analysis sui dati condivisi sui social?
No, la rappresentazione non è finzione, ma espressione di desideri e aspirazioni.
Risalire la piramide dei “perché” (partendo dalle domande più banali – perché quel momento? Perché con quelle persone? Perché in quel luogo? – aiuta a costruire un significato verosimile e il più possibile verificabile) permette di arrivare ai bisogni che si collocano all’apice, quelli che hanno la maggiore probabilità di non essere fenomeni effimeri. Così, conoscere le rappresentazioni più funzionali consente ai brand (e alle destinazioni turistiche) di scegliere meglio i contenuti delle proprie comunicazioni, di dare di volta in volta una voce diversa – ma coerente – ai bisogni di accettazione (e appartenenza).
D’altro canto il palcoscenico ha un lato falso e costruito: non tutto ciò che mostra è vero. I comportamenti, molte volte, ci raccontano una storia diversa e appaiono in contradizione: chi mostra compiaciuto le sue bellissime piante in vasi di ceramica, ha nel retro numerosissimi vasi di plastica raccattati a destra e a manca.
La consapevolezza di questa dualità è però un efficace paracadute per non cadere in eccessive idealizzazioni e leggere in modo più bilanciato e realistico i trend.
E così…
… sì, i vasi di terracotta decorati piacciono molto alle signore amanti del giardinaggio (e ne acquistano anche di costosi e poi li postano su Facebook) ma, anche le più insospettabili, perfezionano le proprie tecniche in vasi di plastica comprati al discount.
… sì, i detergenti green sono i preferiti dai millennials (che li consigliano sui forum o su Instagram) ma se la macchia non se ne va è preferibile la candeggina usata dalla mamma alla no brand (potrebbe essere anche il contrario, è solo un esempio).
Foto di copertina di Mika Baumeister su Unsplash